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lunedì 14 novembre 2011

Itinerari casertani: Pugliano di Teano-Casa Caparco, un piccolo, incantevole borgo a cui far risalire la Cucina Storica

di Gennaro Caparco
Tanti, ma tanti anni fa, esisteva un piccolo villaggio che faceva parte di Teano Sidicino. All’epoca non esisteva la toponomastica cittadina, allora i borghi  erano abitati da più famiglie con lo stesso ceppo e questo determinava il nome di quella piccola località. Così è stato per un villaggio di Teano che aveva il nome di Pugliano di Teano, sembra che tale nome derivasse dalla coltura del miglior olio della zona. Questo villaggio era distinto in tre piccole frazioni, Casa Gigli, sotto il Borgo e Casa Caparco.
Pensa che all’epoca erano tanti i fuochi (famiglie) che determinarono delle piccole comunità, mio nonno mi raccontava che tutti erano imparentati tra loro e su quella piccola collinetta si svolgeva la loro vita, tra un vociare di bambini, tra donne che filavano la lana, tra il grugnire dei maialini, il nitrire dei cavalli e i belati delle pecore e delle capre. Tutti avevano un piccolo orticello, dove si crescevano gli animali da cortile, ed ogni casa aveva una stalla che nelle famiglie più numerose fungeva da ricovero per gli animali e da stanza “da letto” degli abitanti.


Spesso mi domandano dove sia nata la mia passione per la gastronomia ed in particolare per quella storica, alla mia risposta “dalla mia infanzia” restano molto perplessi.
Si dalla mia infanzia, dove i ricordi mi martellano i neuroni ogni volta che penso a quel luogo, dove da piccolo, io cittadino (provenivo da Caserta), mi cimentavo a camminare a piedi nudi sul terreno, a cadere nei rovi, a raccogliere i frutti dagli alberi, a strappare la gramigna (erba infestante della vite) in ginocchio con mio nonno che mi raccontava delle storielle per distrarmi e per non farmi annoiare. 

Si dalla mia infanzia, dove aspettavo tutti i giorni che mia nonna s’inventasse qualcosa da mettere a tavola, per sfamare i suoi cinque figli che ancora erano rimasti in casa, mentre due di loro erano già andati via, compreso mio padre che è entrato in ferrovia a sedici anni e non e mai più ritornato per sempre al suo paese. Vedevo questa grande donna che si apprestava al fuoco del camino prima, e poi in tempi successivi al fornello a gas, preparare la cena con zuppe, minestre, raramente pasta fatta a mano con sughi sempre bianchi o qualche volta rosè con un poco di concentrato che veniva gelosamente custodito, perché quella non era terra di pomodori, ma di grano, vigna e frutta, tutti elementi da vendere per poter tirare avanti la famiglia, e allora via con la zucca in tanti modi, i fagioli in tutte le salse, piselli, uova, formaggio fatto in casa e pane, tanto pane.
Il sabato, ogni quindici del mese era il giorno di festa per me, mia nonna iniziava a lavorare la farina nella madia, con quelle sue grandi braccia e mischiava chili e chili di farina che poi si tramutavano per la sera, in tanti cesti guarniti di un bianco immacolato di stoffa in tanti pani da infornare la mattina alle tre di notte e qui nasce una magia che mi teneva sveglio già all’alba, alla fine dell’infornata dei pani, con il classico e mai dimenticato segno della croce sopra, mi preparava solo quando c’ero io, la pizza più semplice di questo mondo, da infornare per ultima e dopo iniziava la festa della colazione con quella cialda fumante che guarnita con poche cose aveva tanto il sapore dell’Amore.

Si dalla mia infanzia, quando all’età di dieci anni aiutai mio padre (un ottimo cuoco) a preparare il pranzo di nozze per sua sorella in casa, avevamo tre fuochi accesi oltre al camino e io ero il suo aiutante, lavorammo la sera prima a preparare il sugo per i maccheroni, la mattina la nonna prima di andare in chiesa preparò i maccheroni per trenta persone, tanti erano gli invitati, io preparai le panche con delle tovaglie bianche che profumano e gli sgabelli nella stanza da letto dei miei nonni e poi aiutai mio padre.
Ancora oggi mi ricordo il menu: Insalata di peperoni con tocchetti di prosciutto crudo e spicchi di formaggio conciato fatto in casa (Conciato Romano oggi), Tagliatelle al sugo (rigorosamente cucinato per oltre quattro ore), due Tacchini ripieni di ogni ben di Dio, Frutta, Confetti il tutto innaffiato di vino fatto in casa e rosolio per fine pranzo.

Sono tanti i ricordi, la sera dopo cena, tutti noi ragazzi ci riunivamo nel cortile d’estate e sentivamo i racconti dei più anziani, nei pomeriggi assolati ci divertivamo facendo delle lunghe corse per i campi che già brillavano dell’oro giallo del grano, la festa per la mietitura, il raccolto dell’uva, la raccolta delle castagne, il tempo del maiale, il lardo, la sugna, la pancetta, la cotica la preparazione delle salsicce al fuoco del camino “a punta di coltello” e tante altre cose.
Oggi, purtroppo tutto questo e solo un ricordo, il borgo si è spopolato, la toponomastica è rimasta Via Casa Caparco, le persone ci guidano dal cielo e pure…. quando vado in quei luoghi, chiudendo gli occhi ho la sensazione che tutto ruoti come una trottola e mi verrebbe il desiderio di far conoscere quei profumi, quelle fragranze che non possono essere ripetute in città ma solo lì dove si sente il rumore del silenzio.

Questo è il luogo dove mi piacerebbe fare il Laboratorio di Cucina Storica.

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